Sembra che io abbia dormito nella cuccia di un cane. Lo specchio retrovisore mi umilia, respingendo al mittente la mia sgradevole faccia: mal rasato e con i pochi capelli grigi ancora schiacciati dal cuscino, ho gli occhi acquosi stretti come due fessure. Il colletto della camicia azzurra è sporco del sudore di ieri e il primo bottone è caduto, lasciando del filo bianco penzolante che non faccio nemmeno la fatica di strappare via. Se Stella fosse ancora qui, non mi permetterebbe di ridurmi in questo stato. Questa mattina, dopo il caffè consumato insieme in cucina, mi avrebbe preso sorridendo per l’orecchio e costretto al “restauro” come era solita definirlo. Poi dalla finestra mi avrebbe guardato andare al lavoro e mi avrebbe salutato con la mano, mandandomi un bacio. Ma lei non c’è più e quindi chi se ne importa, di questa vita inutile.
Mi chiamo Tino. Sembra uno scherzo, ma mi chiamo proprio Tino Rossi, esattamente come il cantante. Durante la gravidanza, mia madre ascoltava a ripetizione la sua canzone intitolata “Amapola”, ed ecco perché scelse questo nome per me: Tino, proprio così. Molti anni dopo, quella canzone l’ho sentita anch’io e mi è piaciuta, piazzata nel bel mezzo di un film di Sergio Leone. Il cognome invece l’ho ereditato da mio padre, del quale ricordo bene soprattutto l’odore di inchiostro che portava a casa al termine delle giornate trascorse alla serigrafia. “Il Signor Rossi, serigrafo d’Arte”, amava definirsi.
Mi rimangono solo sette giorni per abbandonare il lavoro e andare in pensione. Spero che i colleghi non mi regalino una torta con le candeline o una penna con l’incisione ipocrita “a Tino, con affetto sincero”. Oggi il capo servizio mi ha assegnato la linea 13, che è quella che mi disgusta meno perché non mi annoia e non mi fa pensare alle giornate trascorse senza riuscire a dar loro un senso. Esco in un pallido sole dalla rimessa di periferia e senza intoppi guido lungo il nuovo tratto di strada che porta verso il cuore della città. Il nero asfalto, ancora liscio come un panno da biliardo, non provoca scossoni all’andatura. Saliti alcuni passeggeri, si presentano i primi incroci di strade che fuggono in direzioni opposte, regolati da intransigenti semafori che mi costringono a fermarmi e attendere pazientemente il mio turno. Un furgone arancione si accosta dal mio lato. L’autista sembra esser stato catturato da un ipnotizzatore e fissa un punto inesistente nel vuoto, travolto da musica rock ad alto volume che sento distintamente anche attraverso i suoi finestrini chiusi. Il suo mezzo a brandelli ha sulla fiancata una strana decorazione che raffigura dei topi che mangiano del formaggio. Il semaforo verde rianima magicamente l’uomo come uno schiocco di dita e lui sgomma furioso, per guadagnare trenta preziosi secondi sulla tabella di marcia, allontanandosi velocemente dalla mia vista.
Affronto senza paura alcune curve, utilizzando cautela per evitare pericolose sbandate e nuovi personaggi salgono sul mezzo: un uomo anziano che si aiuta con un bastone che termina con un pomello raffigurante la testa di un levriero, un ragazzino con le spalle schiacciate da una cartella troppo pesante, una donna asiatica che si guarda attorno ansiosamente come un furetto uscito dai cespugli. Alcuni mi ignorano come se fossi invisibile, altri borbottano suoni incomprensibili o fanno un cenno disattento con la mano. Passando vicino alla mia postazione, la mia passeggera preferita con l’immancabile manina di Fatima che porta al collo, mi saluta con un sorriso che potrebbe illuminare l’intero Universo, prima di andare a prendere posto. Alla fermata successiva, quella di fronte al bar, molti scendono per correre verso un nuovo appuntamento o un diverso destino, ma nessuno di loro riesce a catturare nemmeno un cenno di interesse della solitaria ed elegante signora seduta a un tavolino, che, nonostante il traffico caotico e la frenesia che la circondano, mantiene uno splendido sguardo sognante rivolto verso il cielo.
Costeggiando un tratto di mare apro il finestrino per ascoltare la voce dei gabbiani e far entrare il profumo della salsedine, mentre appaiono le barche colorate che riposano in secca e osservo la bianca spuma creata dalle onde che si accaniscono contro gli scogli. L’itinerario adesso mi obbliga a immergermi nuovamente nel traffico intenso, dove veicoli e pedoni incrociano spericolatamente le loro traiettorie alla mia. Guido nelle viscere di un tunnel fumoso, umido e male illuminato, prima di tornare alla luce e scivolare lungo un rasserenante rettilineo alberato. Vedo il solito ragazzo che trascina il proprio corpo utilizzando il deambulatore e cerco di immaginare quale crudele sfortuna possa essersi accanita contro questo povero giovane. Impegnandosi per mantenere il suo lento passo, una signora anziana lo affianca, mentre attraversano stancamente la strada.
Altra fermata, altro carico di varia umanità. Una giovane coppia sale stringendosi teneramente la mano. Subito dietro di loro, una giovane vestita interamente di nero che porta una gabbietta, un ragazzo con grandi cuffie e una signora che sembra parlare con sé stessa. Affronto il tratto di ripida e tortuosa salita che mi porterà in cima alla collina, sul piazzale che decreterà la fine di questo viaggio e, dopo altre fermate, finalmente giungo al capolinea. Tiro il freno a mano e mi volto: sono solo adesso, non ci sono più persone insieme a me. I miei compagni di viaggio sono scomparsi. Lascio il posto di guida e scendo gli scalini, proprio mentre gocce di pioggia iniziano a cadere sul piazzale e sul mio autobus di colore verde e oro. Mi dirigo verso la tettoia di lamiera che mi attende per una meritata pausa.
Mi siedo su una panca e, osservando le montagne che si stagliano lontane all’orizzonte, rifletto su quanto vissuto durante l’ultima ora. Il percorso della linea 13 idealmente rappresenta per me il viaggio della vita, lastricato di strade nuove e vecchie, di incroci pericolosi, di salite e di discese, di paure da affrontare, di tunnel oscuri dai quali fuggire, di rettilinei alberati, di incontri fortuiti, di destini diversi che ci attendono dietro l’angolo, di abissi e di vette, di riparo e, finalmente, di riposo. Un viaggio che conduce inevitabilmente al capolinea.
Sapevo che prima o poi anche il viaggio della mia vita sarebbe terminato e oggi è il giorno giusto per morire. Come è stato per la mia amata Stella così sarà per me, perché non mi interessa continuare questo viaggio solitario: nella notte insonne ho deciso che la giornata di oggi sarà il mio personale capolinea. Non assisterò impotente al lento estinguersi della curiosità, sostituita dall’inesorabile avanzare dell’apatia. Non finirò attaccato ad una cancellata e stordito dalla demenza senile, a guardare un cantiere stradale. La balaustra del piazzale non è molto alta e posso scavalcarla facilmente, per lasciarmi cadere nel vuoto: la farò finita in un attimo: basta mettere insieme il coraggio.
La mia gamba viene urtata e abbasso lo sguardo. Improvvisamente non sono più solo, sotto questa tettoia di lamiera. Un piccolo cane si è appoggiato a me scodinzolando, probabilmente per cercare calore e per asciugare le gocce di pioggia che imperlano il suo mantello marrone e bianco. Strofina ripetutamente il musetto grazioso contro il mio stinco, pretendendo un gesto di amicizia. Quassù non arriva mai nessuno e ipotizzo che lo abbiano portato fin qui con l’automobile per scaricarlo e abbandonarlo il più lontano possibile da casa. Cerco di evitare il suo sguardo: non ho cambiato idea e la balaustra mi aspetta: voglio finire qui la mia storia. Certo che una piccola carezza la merita, questa bestiola così affettuosa. Incurante del mal di schiena che mi affligge, mi chino e passo la mano sulla sua morbida testolina. E poi di nuovo, per due, tre, quattro, cinque volte. Strizza gli occhi e si gode il momento, assestandomi delicati colpi con il muso, per esortarmi a continuare le coccole.
La medaglietta che porta al collo mi finisce magicamente in mano e leggo qualcosa che solo il destino ha potuto incidervi. Il sangue accelera impazzito nelle vene e pompa il cuore fino al corto circuito, facendomi girare forte la testa: è il suo nome, e lei si chiama Stella. Immediatamente un dolce pensiero mi culla: il pensiero che durante tutte queste mattine lei, la mia Stella, non abbia potuto salutarmi con la mano e mandarmi un bacio dalla finestra, ma che adesso la sua essenza sia arrivata fin qui per rifarmi dono della vita. Non mi vuole egoisticamente accanto a sé, vuole salvarmi.
Le mie decisioni si sciolgono come neve al sole.
Adesso torno a casa con la mia nuova amica e trovo per lei una comoda sistemazione. Le donerò un grande cuscino morbido dove riposare e le comprerò del buon cibo. Mi dedicherò a lei, e mi dedicherò anche a me. Andrò a farmi tagliare la barba e i capelli. Indosserò la camicia pulita e la cravatta, con il vestito marrone e le scarpe più belle.
Terminato il restauro, io e Stella andremo insieme a camminare lungo il mare e scaldati dal sole, ci stancheremo giocando con i piccoli legni abbandonati dall’alta marea.
Il viaggio continua, il mio capolinea può aspettare.
Grazie, amore mio.
Racconto inserito anche nella raccolta “Quando capita un viaggio”, curata da Maurizio Barilli ed edita da Epika Edizioni nel 2024, i cui proventi vengono devoluti ad AGEOP Ricerca ONLUS per la cura di ogni bambino malato di cancro.
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Osservando le mie mani, ho visto granelli dei ricordi cadere tra le dita, uno dopo l’altro, e andare perduti per sempre. Con questo contenitore magari ne salverò qualcuno, per chi, in futuro, sarà interessato a capire cosa io fossi.
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