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13 Gen

Le case abbandonate, a Portegrandi

La striscia di asfalto, dritta come una lama, sembra liberare minuscoli vortici d’aria bollente: è una linea scura e calda che, dopo aver patito una lunga giornata di calore estivo, adesso sembra friggere, davanti all’automobile. Purtroppo c’è traffico, tanto traffico. Guido, ma non riesco a rimanere concentrato come dovrei. Quindi cerco di rallentare il più possibile, visto che il mio sguardo viene spesso attratto da ciò che accade alla mia sinistra. Qui, negli affascinanti giochi di luce del tramonto, scorrono, come in un film, le immagini della laguna di Venezia, e di un tranquillo canneto, densamente popolato da uccelli, che si bagnano nelle acque tranquille.

Alcuni, senza preavviso, spiccano il volo, solitari o in gruppo, passando attraverso la vegetazione, e tracciando nella brezza estiva coordinate imponderabili. Un uomo chino fende l’acqua lentamente, con la sua barca. Anatre grandi e piccole, rimanendo ordinatamente in fila, lo lasciano passare, e tengono sotto controllo il traffico circostante. Penso che, se questa sequenza d’immagini si potesse trasformare per magìa in uno spartito, sarebbe quello di “Big my secret”, un toccante pezzo strumentale suonato al pianoforte da Michael Nyman. Quanto vorrei ascoltarlo in automobile, in questo momento. Alcune note si specchiano perfettamente nelle placide acque, altre riflettono il vibrare indolente delle canne, altre ancora i movimenti scattanti e repentini degli uccelli. La colonna sonora perfetta, per questo ennesimo spettacolo della natura.

Ma ecco che, improvvisamente, le auto davanti a me frenano, e devo riportare con disappunto lo sguardo sulla strada. Ripartiamo: prima marcia, seconda, terza, quarta, andiamo, ma rallento, e, questa volta, volgo lo sguardo alla mia destra. Il panorama è molto diverso: le montagne, là in fondo, rappresentano una cornice severa e imponente. Più vicino, presso la strada, vedo passare un nuovo film: la visione dei campi incolti e degli arbusti seccati dal sole si alterna a quella di antiche costruzioni, ormai abbandonate dagli esseri umani.

Le conto, e, come ogni volta, faccio l’appello: Cà Redenta, Cà Risorta, Cà Florida, Cà Speranza, Cà Favorita, Cà Fertile, Cà Feconda, Cà Imperia sono presenti, e si susseguono come vecchie diapositive, e malinconici ricordi di esistenze che furono.

Anche a questo lato della strada voglio accompagnare, solo per gioco, uno spartito, una colonna sonora. Questa volta deve essere a tono unico, battente, quasi ipnotica. Desidero note che ricordino il ferro, la fatica, i martelli, gli aratri, il sudore, i sacrifici. Una musica che abbia tanta sostanza, anche se avrà poca poesia. MI suona in testa “Wrong”, dei Depeche Mode: ecco, forse potrebbe andare bene. Abbiamo due realtà, e due spartiti musicali confinanti, collegati: così vicini, eppure così lontani.

Adesso sono finite le case abbandonate, è scomparso il placido canneto, niente verdi acque con le anatre. Anche il tramonto ha fatto un bell’inchino, ed ha abbandonato il palcoscenico. Ovviamente, non è terminato il traffico.

Guido in tangenziale: tutti hanno fretta, tutti lampeggiano e sorpassano, tutti vogliono arrivare primi.

Io devo solo guardare fisso, davanti a me.

A meno di 30 chilometri da Venezia, la zona alla quale questo racconto è riferito, rimase completamente paludosa fino al 1700: la Serenissima ne decise la bonifica quando la malaria sembrò prevalere definitivamente contro le approssimative cure dell’epoca, e l’Isola di Torcello era stata ormai stata dichiarata ufficialmente “inabitabile” (durante l’anno 1625). In un arco temporale di circa 200 anni, la palude fu oggetto di numerose e complicate bonifiche, che, insieme a un’importante deviazione del fiume Sile (progettata per evitare l’insabbiamento della laguna) l’hanno morfologicamente trasformata allo stato attuale.

Le abitazioni coloniche furono costruite durante i primi anni del 1900, per favorire l’insediamento di famiglie di mezzadri, che rendessero produttivi i campi appena sottratti con fatica alle acque.

La strada, che è rialzata di qualche metro, fungeva (e funge ancora) da argine: da una parte le acque, dall’altra le sterminate coltivazioni, e le case. E immagino che fosse bello, vederle colme di vita, di suoni e di profumi, quelle costruzioni, adesso pericolanti: immagino alcuni cani, i panni bianchi stesi ad asciugare, i bambini che schiamazzano vicino a un rubinetto, le donne con i fazzoletti in testa che raccolgono la frutta, e suonano la campana, per chiamare gli uomini a pranzo.

Insomma, lì, dove adesso i tetti crollano, dove i muri sono storti, dove è “severamente vietato l’accesso”, dove sono cresciute le spine, insomma, proprio lì c’era la vita, tanta, difficile, e vera, vita.

 

 

Erano vite fatte di lavoro, di sacrifici, di zanzare, di privazioni, di malattie. E vite condizionate anche dalle alluvioni, purtroppo.

Probabilmente fu quella disastrosa del 4 novembre 1966 (vedi foto a sinistra) a dare il colpo di grazia definitivo alle famiglie, che fino a quel giorno avevano resistito, e che scapparono per sempre.

Immense stanze vuote, focolari spenti, giardini incolti: non so se ritornerà mai la vita, nei grandi casolari di Portegrandi.

..lì, dove adesso i tetti crollano, dove i muri sono storti, dove “è severamente vietato l’accesso”,

dove sono cresciute le spine, insomma, proprio lì, c’era la vita, tanta, difficile, e vera, vita.

21 Comments
  • laura

    Stefano..non ho parole..hai scritto quello che ho sempre provato io e pensato quando faccio la jesolana e sono attratta dagli stormi o dalle case coloniche.
    grazie mille x le chicche storiche.. e per i suggerimenti musicali che ahimè nn conosco ma immagino..applauso! 👍🏻

    14 Gennaio 2018 at 0:25 Rispondi
  • clarissa casteldaccia

    Big my secret – wrong: un accostamento esplosivo. La musica, per me, il miglior mezzo di comunicazione. Grazie Stefano

    17 Maggio 2018 at 12:13 Rispondi
  • Antonella Ruzzante

    Sono appena transitata sulla jesolana e, come ogni volta che ci passo, non posso fare a meno di guardare i casolari della bonifica di portegrandi.
    Sono più di 40 anni che vado in vacanza a Jesolo e ho visto questi casolari ancora abitati da famiglie di contadini, piano piano venire abbandonato e poi deteriorarsi fino a crollare. È un vero peccato che una parte della nostra storia e cultura contadina venga lasciato crollare così. Mi sono spesso chiesta di chi siano proprietà e se non fosse possibile conservarli, per ricordare la memoria di tutte quelle famiglie che hanno dedicato la loro vita alla campagna.
    Anche a me capita di immaginare, mentre li vedo scorrere, le persone che li hanno abitati, le loro storie, le loro speranze , le loro vite faticose.
    Per la prima volta ho fatto una ricerca su google su questo argomento e ho trovato questo tuo racconto che mi ha emozionato.
    Ho cosi scoperto di non essere la sola ad amare queste vecchie costruzioni ricche di storia

    5 Maggio 2019 at 14:25 Rispondi
  • Samy

    Grazie per questo contributo poetico al mio paese… Pensavo che le mie emozioni fossero dovute al senso di appartenenza e all’affetto che mi lega al luogo dove vivo da sempre. Invece scopro con gioia che questo panorama a destra da sinistra emoziona anche qualcun altro. Grazie

    22 Luglio 2020 at 7:42 Rispondi
  • Angelina Zampelli

    I mie nonni abitano in una di questi casolari ,i mie amici abitavano li ,i mie zii quanti ricordi legati a queste terre mi riempiono il cuore grazie per questo meraviglioso racconto

    22 Luglio 2020 at 19:00 Rispondi
    • diana cosmo

      Sarebbe bellissimo se tu ci raccontassi qualche storia.

      7 Novembre 2020 at 15:12 Rispondi
  • L.gobbo

    La mia famiglia ci abila ancora

    23 Luglio 2020 at 6:49 Rispondi
  • Rosy

    Stefano grazie per aver raccontato un’emozione e competenze storiche… Le ho sempre viste, trascorso quella strada milioni di volte ma mai soffermata ed andare al di là di quattro mura abbandonate. Da piccolina le contavo e sapevo che alla fine di tutte ero quasi arrivata al mare .

    25 Luglio 2020 at 10:45 Rispondi
  • Laura fioriti

    Quando ero bambina e andavo al mare con i miei genitori le ricordo ancora quasi tutte abitate. E in quella vicina alla chiesetta c era una trattoria dove si mangiavano i “bovoletti”.
    Sono passati più di quarant’anni !!
    Fa tristezza ora vederle così perché ti fa sentire l inesorabile passare del tempo. Grazie x il bel racconto

    25 Luglio 2020 at 13:24 Rispondi
  • Gianni Mazzon

    IO SONO NATO A CA SPERANZA NEL LONTANO OTTOBRE 1950,POI CON I MIEI GENITORI SIAMO EMIGRATI IN LOMBARDIA A NOVEMBRE DEL STESSO ANNO A ,VAREDO MB. NON HO RICORDI,ERO APPENA NATO, LA MIA FAMIGLIA ERANO I MAZZON,DETTI I BEDIN, MI RICORDO CHE SONO TORNATO CON I MIEI GENITORI NEL LONTANO 1956 X UN MATRIMO DI UN NOSTRO PARENTE E RICORDO CHE ERANO TANTI IN FAMIGLIA,CON GLIANNI SI SONO POI TRASFERITI TUTTI IL LOMBARDIA,ORA HO PERSO LE LORO TRACCE.

    13 Maggio 2021 at 13:57 Rispondi
  • Claudia Ferrarese

    Ciao Stefano, sono transitata oggi per caso in questa strada, il mio intento era vedere la pista ciclopedonale a sbalzo sula laguna.
    Sono rimasta molto colpita da questi edifici in stato di abbandono ed ho immaginato quella vita che hai descritto tu!!
    Avevo immaginato che si trattasse di costruzioni legate alla bonifica e tornata a casa sono ricorsa ad internet per scoprire qualcosa in più…. Che piacere leggere il tuo articolo, ti ringrazio!! Non conosco quei brani musicali, adesso li cerco e li ascolto.
    Ho percorso la ciclabile ed ho scoperto un territorio bellissimo che ho apprezzato maggiormente perché oggi non c’era quasi nessuno. Ho il cuore pieno di emozione, fantastica regione il Veneto!!!

    27 Aprile 2022 at 20:58 Rispondi

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