Di domenica pomeriggio, seduti sotto il sole sulla scalinata delle scuole, ti vedevamo arrivare giù da Via Federico Alizeri, secco come un chiodo, con l’andatura tutta snodata, e l’immancabile sigaretta in bocca. Ti accoglievamo con una risata, una battuta, una pacca sulla spalla, o degli spintoni, e poi prendevi la siga tra l’indice ed il medio, ti mettevi un po’ di sbieco, facevi le mosse da chitarrista e, schiacciandomi l’occhiolino, con la tua cadenza emiliana, mi dicevi “taglia la testa al gallo, sennò ti becca sulla schiena”. E io ridevo da matti, anche se veramente quella canzone lì non mi piaceva mica tanto. ------------------ Devo confermarvi, e sicuramente lo avevate già capito, che i ragazzini che avete incontrato nel racconto “Hey, ascoltate Jim Croce” (se non li conoscete, o non li ricordate, vi consiglio di interrompere per un attimo questa lettura, e di lèggere prima qui) sono veramente esistiti. La combriccola era composta da Costantino, da Francesco, da Tony, da Giampiero, e da me stesso. Negli anni immediatamente seguenti a quella fatidica giornata vissuta al mare di Vesima, la nostra amicizia era serenamente proseguita, con tutti gli ingredienti tipici delle adolescenze vissute a cavallo tra gli anni’60 e gli anni ’70. Durante le scuole elementari e medie, la nostra vita di quartiere includeva soprattutto le immancabili partite di figurine (ai tempi giocavamo a “colletti” o a “mazzetti”), e le scorribande verso le allora verdissime colline di Via Ferrara. Più raramente, ci spostavamo verso luoghi normalmente sconsigliati, come la preoccupante “Casa Nera”(anni prima, nel febbraio del 1966, un bambino cadde in un pozzo presso l’edificio, e perse la vita), il palazzo della tragedia di Via Digione o la selvatica “Villa Rosazza”, al tempo abbandonata, alla quale accedevamo passando sotto ad un cunicolo nascosto, situato dietro alle docce pubbliche di Via Venezia, prima che le demolissero per realizzare il cosiddetto "campetto”. Ricordo bene quando mio padre, dato che in casa non avevamo né la doccia, né la vasca da bagno, mi portò in quello strano luogo, e ci consegnarono una piccola saponetta quadrata, e un profumato asciugamano bianco.

Il Lagaccio

Il Grand Hotel Miramare
A volte ci spingevamo anche al pericoloso e limaccioso "Lagaccio”, o all’affascinante, seppur tristemente abbandonato, Grand Hotel Miramare, nel quale entravamo scalando delle irrilevanti barriere di filo spinato. A tal proposito, scopro con emozione che, chiudendo gli occhi, riesco ancora a vedere i meravigliosi saloni, le splendide scalinate, e le camere di lusso, che, in un passato lontano e glorioso, avevano in ospitato Winston Churchill, Margherita di Savoia, Stan Laurel, Oliver Hardy e Guglielmo Marconi.
Incombenze scolastiche a parte, in seguito la nostra attività principale fu rappresentata soprattutto da estenuanti partite di calcio senza esclusione di colpi, organizzate in Piazza Raffaele Sopranis insieme ad altri ragazzi del quartiere. La piazza era molto grande (infatti ogni anno ospitava un torneo di calcio, all'interno del "Premio Regionale Ligure", organizzato da Don Bruno), non c'era molto traffico, ed eravamo ormai diventati bravissimi a girare con il pallone attorno alle macchine che transitavano, senza fermarci. L'unico disastro possibile era la caduta del pallone nel cortile di una delle ultime fabbriche del ghiaccio in Italia (adesso sostituita da un palazzo, e un supermercato), che dominava la piazza stessa. Parallelamente, giocavamo interminabili tornei di calciobalilla, in un bar di Via Venezia, gestito da una imponente e, solo apparentemente, severa signora di colore. Tutto questo, insieme al cinema "Venezia", al palazzo del disastro del 1968 in Via Digione, alle piccole botteghe (come l'edicola della Rosetta, come quella di Berto il vinaio, o come quella che ti vendeva il kerosene, il legno o il carbone per le stufe), e a molto altro, formava all’epoca il quartiere di San Teodoro di Genova, che, con i suoi tanti angoli nascosti, rappresentava un po’ il nostro campo giochi esclusivo. Con il passare degli anni, fermo restando la nostra amicizia, le cose iniziarono lentamente, e inesorabilmente ad evolversi. Il primo di noi (e fu Costa, credo) conquistò la patente, ed acquistò una bella FIAT 127, di un atroce color verde pisello. Nella compagnia arrivarono, in seguito, anche un bel Maggiolone giallo, che apparteneva a Franco, e la mia FIAT 128 rossa, scampata alla rottamazione, che mi fu regalata dal mio vicino di casa, il maestro (di chitarra) Elio Bruzzone. Tutti noi, più o meno contemporaneamente, iniziammo a frequentare i cinema (appuntamento sotto i cartelloni in Piazza De Ferrari) e le discoteche (il “New Betatron”, detto “Beta”, il “Vanilla”, lo “Xenos” e altre), oltre che, finalmente, a sbandare pericolosamente per qualche ragazza, che magari non ci considerava nemmeno per sbaglio. Ed iniziammo anche ad ascoltare musica, tanta musica, di tutti i tipi. I gusti del gruppo erano estremamente eterogenei: ad esempio, nel 1977 il primo vinile che io acquistai (da “Paganini Dischi” in Via XX settembre) fu “Rockollection” del francese Laurent Voulzy, seguito, poco dopo, da “I remember yesterday”, di Donna Summer, e da "Love me again" di Rita Coolidge. Per fortuna, poco tempo dopo, io e Franco facemmo un discreto salto di qualità, rispondendo ad un tipo che vendeva per poche lire gli album “Frampton comes alive”, di Peter Frampton e “52nd Street”, di Billy Joel. Incontrammo il tizio in Piazza Manin, e io scelsi l’album di Billy Joel, scoprendo un cantante che non avevo mai ascoltato prima, e del quale sarei in futuro diventato un collezionista. Dopo questi primi acquisti, i miei gusti, anche grazie all'amica Mariarosaria Murmura (che mi convinse senza fatica a cantare “Happy Christmas, war is over” alla festa di Natale del Turistico) dirottarono perentoriamente verso i Beatles. Anche Franco si concentrò sui ragazzi di Liverpool, e mi piange ancora il cuore, ripensando a quella volta, quando tentammo di ascoltare la sua copia del “White album” con uno spillo, e facendo girare il disco al contrario, per scovare le frasi sataniche. Nel frattempo, Tony era molto concentrato sulla musica italiana, soprattutto quella romantica trasmessa in radio (ricordo ad esempio, che gli piaceva “Tu sei l’unica donna per me”, di Alan Sorrenti, 1979), e Giampiero scopriva un album di Ivan Graziani (sempre nel 1979, ed era “Agnese dolce Agnese”), a proposito del quale ci torturava quotidianamente. Gian tanto fece, che mi indusse ad ascoltare l'album, e io me ne innamorai. Quindi, fortunatamente, mi invitò ad andare insieme a lui, a vedere il concerto, presso il Teatro Margherita (e trovate la recensione dell'album e del concerto qui). Sempre nel 1979, Costa acquistò (anche se lui sostiene ancor oggi che non sia vero, e sono pronto a smentire, se la memoria mi ha ingannato) l’album “Outline” di un certo Gino Soccio, per passare quasi subito, fortunatamente, ai Supertramp di “Breakfast in America”, e ai Genesis. Insomma, tutti crescevamo, sotto ogni aspetto, e lo facevamo molto velocemente, tutti insieme, scambiandoci esperienze, gusti personali, riflessioni, e anche dischi. L'unica cosa che non ci scambiammo, per fortuna, furono le passioni per le ragazze. In questo senso, ognuno di noi coltivò le proprie, con risultati alterni: per tutti, prima o poi, arrivarono i dolori al cuore, le gioie, gli entusiasmi e le cocenti delusioni. Subimmo anche alcuni drammatici accadimenti personali: qualcuno di noi rimase prematuramente senza il papà, e perdemmo anche due giovani amici, Emilio Di Luca e Francesca Spotti, che ricordo ancora con immenso affetto. In tutte le occasioni, tentammo di crescere tutti insieme, di darci una mano nei momenti difficili, e di diventare degli uomini. Credo che, con il tempo, forse ci siamo miracolosamente riusciti. -------------------------
Non molto tempo fa, Tony (il cui vero nome è Giancarlo) mi ha mandato un messaggio whatsapp, e ve ne trascrivo qui le parti più rilevanti: "Ciao Ste, come va? Tutto bene ? Volevo chiederti se sapevi di Giampiero. Questa sera, non avendo più sue notizie da quando si è trasferito a Reggio Emilia, ho cercato su internet, ed ho trovato questo, è un articolo del 2003 di un incidente: Giampiero Forchini, l'operaio morto ieri nell'incidente stradale accaduto sulla Via Emilia, avrebbe compiuto 41 anni il 13 novembre. Originario di Genova, si era trasferito a Reggio Emilia, e viveva da solo, in un appartamento. Anche ieri mattina, prima del tragico schianto contro un TIR, avvenuto fra Cadè e Cella, il 40enne era andato a lavorare, e, dopo aver concluso il turno, aveva salutato tutti" I dati anagrafici purtroppo corrispondono, e anche quello che ci ricordavamo di lui, corrisponde: uno di noi era andato via. Se ripenso ai ragazzini che mangiano la focaccia, non posso credere che lui non viva più. Ho pensato spesso al suo sorriso, alla sua andatura, alla sua cadenza emiliana, a tutto quello che lui era. E ultimamente ho pensato spesso anche al concerto al quale assistemmo insieme. Adesso che siamo cresciuti, che siamo uomini, e che possiamo raccontare le nostre strane storie, te ne sei andato via, ed eri ancora troppo giovane. "Taglia la testa al gallo, sennò ti becca sulla schiena", mi diceva. E faceva le mosse del chitarrista. E in piazza, sotto il sole noi ridevamo, come degli stupidi.
Osservando le mie mani, ho visto granelli dei ricordi cadere tra le dita, uno dopo l’altro, e andare perduti per sempre. Con questo contenitore magari ne salverò qualcuno, per chi, in futuro, sarà interessato a capire cosa io fossi.
Mariarosaria Murmura
Un viaggio nel tempo, quasi a ricolorare immagini sbiadite… davanti a me un topino bianco di peluche che è sempre con me, da quell’anno che non ricordo più. L’ultimo regalo di Francesca.
Grazie Ste, stasera canterò una delle nostre canzoni.
Stefano Butera
Mariarosaria, amica mia, un commento che ti si addice: intelligenza e sensibilità, ti hanno sempre contraddistinto.
E rimani l’unica che l’unica sia riuscita a farmi cantare, nella vita.
Grazie
Clarissa Casteldaccia
Cosa c’è di più tremendo per noi comuni mortali? Il trascorrere del tempo ed il non potere rivivere il passato. L’errore che si fa è credere che ogni momento del passato sia riproponibile. Ti ringrazio per questo articolo che mi spedisce a quei tempi e mi restituisce la dolcezza di quegli anni.
Clarissa
Stefano Butera
Grazie del gentile commento.