Il mio processo di conoscenza intima con Istanbul era stato portato avanti con dedizione: avevo giocato a perdermi nel Kapali Carsi (l’immenso Bazar coperto formato da decine di strade, e migliaia di negozi di ogni genere) e ammirato al tramonto lo splendido panorama della città dalla Torre di Galata, prima di scendere sotto l’omonimo ponte, a gustarmi un ottimo narghilè e un terribile caffè, ingoiando una notevole quantità della melma che si era depositata sul fondo della tazzina.
Dopo aver accarezzato la “Torre della fanciulla”, la Kiz Kulesi (in riferimento alla quale trovi informazioni anche in questo articolo), mi ero spinto fino ad Uskudar e a Kadikoy, i quartieri della parte più a est della città, posando il piede in Asia con lo stesso atteggiamento trionfale che manifestò Cristoforo Colombo quando giunse su una spiaggia in America. Al Palazzo Topkapi avevo rischiato la confisca della macchina fotografica, a causa di un’innocente immagine rubata del “Diamante del fabbricante di cucchiai” (quinto al mondo per valore, con i suoi 86 carati), e al porto avevo rasentato l’intossicazione alimentare, per un pesce pescato nelle acque del bosforo, poi scaldato su una piastra, e messo in mezzo ad un panino dal solerte padrone di un peschereccio appena rientrato. Ovviamente avevo esplorato, e toccato con mano, tutto ciò che era stato umanamente possibile in una settimana: moschee, giardini, cimiteri, quartieri, cisterne, chiese, minareti, case. Mangiato e fumato cose di dubbia provenienza, alcune volte purtroppo insieme a personaggi di dubbia provenienza.
Insomma, non mi ero fatto mancare quasi nulla, della meravigliosa Istanbul del 2004. Nonostante ciò, avevo ancora un ultimo desiderio da esaudire, prima di partire per Antalya (dove avrei assistito al World Rally Championship, ma quella è un’altra storia): provare l’esperienza di un vero, originale, incontaminato, Hamam.
Nonostante la percezione spesso superficiale che ne abbiamo in Occidente, il termine Hammam (che in lingua turca si scrive e si pronuncia Hamam) ha origini antichissime (sembra del settimo secolo) e indica, in lingua araba, il complesso termale nel quale i musulmani effettuano i lavacri chiamati Ghusl e Wudu, spesso accompagnati da massaggi e depilazione, per conseguire la Tahara (purezza) indispensabile per poter adempiere all’obbligo delle cinque Salat (preghiere) giornaliere. Nell’antichità l’Hamam non assolse esclusivamente questa importante funzione, ma divenne anche un luogo d’incontro e di conversazione, quindi di socialità. Il mio volere era di provare questa esperienza presso un Hamam frequentato da clientela locale, e non da turisti:, dopo aver raccolto qualche consiglio da due strani tipi in un cimitero (ma questa ve la risparmio) scelsi il Cemberlitas Hamam, senza purtroppo conoscerne la storia, né la ritualità. Ecco la cronaca di quell’esperienza:
Entro, e mi avvicino alla biglietteria. Un omone massiccio e dotato di enormi baffi scuri mi accoglie con un minimale cenno del capo, poi mi parla velocemente in turco per un lunghissimo minuto, senza che io riesca a fermarlo, né a comprendere una sola sillaba. Boccheggio, e mi produco nella perfetta imitazione del “ritardato che spalanca gli occhi”, come se fossi appena riemerso dal tombino nel quale ero precipitato. Lui, scrollando la testa in segno di commiserazione, ripete pietosamente tutta la filastrocca, in una lingua che crede essere inglese, ma che io credo convintamente essere aliena. Vorrei informarlo del fatto che, senza dubbio, chi gli ha insegnato l’inglese gli ha rubato il denaro, ma vista la stazza, anche questa volta scelgo di continuare a vivere, e quindi mi rifugio nell’omertà. Avendo compreso il nulla totale di quello che andrà ad accadere, indico a caso, con un dito, uno dei biglietti colorati che lui ha sul banco, un po’ come se stessi acquistando un “gratta e vinci”. Ecco, ho compiuto la mia scelta (in)consapevole: pago, ed entro nel primo locale, nominato Camekan.
In questa specie di cortile coperto, trovo un minuscolo spogliatoio libero, dove lascio le mie poche cose. Indossando solo le ciabattine e il Peshatamal (una piccola pezza di tessuto di cotone a quadretti, per coprire le parti intime) sorseggio un ottimo tè alla menta, e quindi mi viene indicato, a gesti, di accedere alla sala adiacente, nel vero e proprio Hararet, nel cuore del Hamam.
Nel silenzio assoluto, noto subito che la volta in alto (costruita nel 1584) è magnifica, con piccoli fori che lasciano penetrare sottili fasci di luce per creare la penombra, ideale per la riflessione e il rilassamento. L’ambiente è architettonicamente esemplare ed elegante, completato da colonne di marmo di diversi colori. Nel centro dell’hararet, denso di vapori caldi, c’è la “Pietra Ombelicale”, un’immensa lastra di marmo (in turco chiamata Göbek taşı), sulla quale sono distesi due uomini con gli occhi chiusi. Ovviamente non ci sono donne: negli Hamam la distinzione tra i sessi è rigorosa. Imitando gli altri, mi sdraio sulla lastra, e mi godo il calore intenso che arriva dal marmo. Mi giro e mi rigiro più volte, facendo in modo che il calore mi avvolga per bene. Ogni tanto mi reco presso delle piccole cascate d’acqua laterali, e alterno abluzioni fredde, tiepide e bollenti al torso, alle gambe e alle braccia, prima di tornare a sdraiarmi sul marmo caldo, e a sudare abbondantemente.
Quando, mezz’oretta dopo, credo di essermi ormai impadronito della materia, e di aver veramente compreso tutto degli Hamam, entrano in sala tre uomini, e si dirigono decisi verso di noi. Uno di loro, anziano e con una incolta barba bianca, mi indica a gesti di cambiare posizione ma, visto che non capisco al volo, mi prende le gambe, e me le sposta a suo piacere. Improvvisamente, mentre è presso di me, e prende qualcosa da una bacinella, inizia, molto sottovoce, quasi sussurrando, a cantare. Non si tratta propriamente di una canzone, presumo che si tratti in realtà di preghiere recitate in arabo, magari tratte dal Corano, ma sono recitate musicalmente, come potrebbe sembrare una filastrocca, in Occidente .
Prima che io mi riprenda dalla sorpresa, mi bagna braccia e gambe, e inizia a strofinarle con un guanto di crine. La sensazione (fisica, ma anche “emotiva”) è stranissima, ma piacevole. La sua recitazione diviene quasi ipnotica, mentre continua l’alternanza di pulizia della pelle (chiamata kese) con le abluzioni di acqua calda. In seguito, mi sottopone ad un rude ed energico massaggio, con tanto di piegatura forzata di braccia e gambe (si aiuta anche schiacciandomi la schiena con le ginocchia) e quindi, come atto finale, arriva al lavaggio. Cerco di superare uno stupido ed immotivato imbarazzo (erano circa 50 anni, che qualcuno non mi lavava..) e di memorizzare bene per il futuro quello che sento, e quello che vedo. Cosparso di soffice sapone, vengo lavato come un bimbo, con la colonna sonora della filastrocca nelle orecchie. L’anziano è talmente bravo, e talmente esperto a fare il proprio lavoro, che mi rilasso, e mi abbandono completamente al momento: in quel momento, per me, l’atmosfera è assolutamente perfetta, e indimenticabile.
Chiudo gli occhi: mentre l’acqua tiepida lava via le tossine dal mio corpo e dalla mia mente, mi sento finalmente in pace con me stesso, e con il mondo.
Osservando le mie mani, ho visto granelli dei ricordi cadere tra le dita, uno dopo l’altro, e andare perduti per sempre. Con questo contenitore magari ne salverò qualcuno, per chi, in futuro, sarà interessato a capire cosa io fossi.
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